L’ora dell’iniziativa improrogabile è giunta.
La “discesa in campo” è una necessità, prima ancora che un dovere.
Il rischio di venire soffocati dall’offensiva
1) economica 2) politica 3) culturale
di un neoliberismo conservatore che sa fare benissimo i suoi calcoli è troppo grande.
Le pratiche e i linguaggi della politica sono sempre più egemonizzati dalle forze reazionarie; a trarne profitto è una globalmente assai ristretta “elites di proprietari”, che sembra avere pochi tratti in comune con l’immagine “classica” della borghesia produttiva e intellettuale.
Mentre si sono finiti di celebrare i funerali di quell’idea di progresso che aveva segnato assai più nel bene che nel male il XIX e il XX secolo, l’egemonia culturale di questo “ceto possidente” si realizza attraverso un’inquietante miscela di postmodernità e arcasimo, come ben esemplifica il continuo richiamo a valori e radici di carattere comunitario-religioso; valori e radici che diventano il migliore strumento per scompaginare il variegatissimo fronte del “proletariato mondiale” (divide et impera!).
è quando si iniziano a intravedere queste connessioni tanto nascoste quanto strutturali per l’intero sistema, che si sente la necessità di cercare di intervenire. E se il compito che si ha di fronte è impossibile, la sfida si fa ancora più interessante.
Non si tratta soltanto di smontare la retorica neoliberista;
non si tratta soltanto di mostrare in tutta la sua grettezza materialistica la parzialità del punto di vista “unico” delle classi dominanti;
non si tratta solo di contraddire; si tratta, anche e soprattutto, di proporre, per cambiare.
Contaminare la tradizione socialista-marxista con le riflessioni del pensiero critico degli anni ’70 può sì fornirci delle risposte, ma anche farci pericolosamente brancolare nel buio ormai trentennale della postmodernità; è questo l’esperimento che tenteremo, concedendoci il lusso della più blasfema delle eresie postmoderne:
sperare in un mondo migliore, più giusto e più felice.